Lingua Napoletana
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La lingua napoletana (nnapulitano) è un idioma romanzo riconosciuto dall'UNESCO come lingua e patrimonio dell'umanità (76° lingua parlata al mondo). Accanto all'italiano, è correntemente parlata, nelle sue molteplici variazioni diatopiche, in Italia meridionale nelle regioni della Campania, della Basilicata, della Calabria settentrionale, del Molise, della Puglia e nel Lazio meridionale al confine con la Campania. Si tratta di tutti quei territori che, nelle antiche Due Sicilie, costituivano il Regno al di qua del faro di Messina, laddove la lingua nazionale era appunto il napolitano, mentre il siciliano quella del Regno al di là del faro (Sicilia). Il volgare pugliese, altro nome con cui sono storicamente conosciuti il napoletano e i dialetti àusoni, sostituì il latino nei documenti ufficiali e nelle assemblee di corte a Napoli, dall'unificazione delle Due Sicilie, per decreto di Alfonso I, nel 1442. Nel XVI secolo re Ferdinando il Cattolico impose il castigliano come nuova lingua ufficiale e il napoletano di stato sopravviveva solo nelle udienze regie, negli uffici della diplomazia e dei funzionari pubblici. Il cardinale Girolamo Seripando, nel 1554, stabilì poi che in questi settori venisse sostituito dal volgare toscano. Per secoli la letteratura in volgare napoletano ha fatto da ponte fra il mondo classico e quello moderno, fra le culture orientali e quelle dell'Europa settentrionale, dall'«amor cortese», che con la scuola siciliana diffuse platonismo nella poesia occidentale, al tragicomico (Vaiasseide, Pulcinella), alla tradizione popolare; in lingua napoletana sono state raccolte per la prima volta le fiabe più celebri della cultura europea moderna e pre-moderna, da Cenerentola alla Bella addormentata, nonché storie in cui compare la figura del Gatto Mammone. Oggi il volgare meridionale vive nella «canzone napoletana», conosciuta in tutto il mondo, che si è dimostrata una delle più caratteristiche espressioni artistiche della cultura occidentale, apprezzata per la vivacità, per la poeticità e per le melodie, che sembrano conservare tutta la loro forza comunicativa anche di fronte al variegato panorama delle correnti filosofiche e artistiche europee. Presso il consiglio regionale della Campania è stato depositato un disegno di legge che ne propone la rivalutazione sociale e civile.
LE ORIGINIIl napoletano, come l'italiano, è una lingua derivata dal latino. Sono state ipotizzate anche tracce della lingua parlata in Italia centro-meridionale prima della conquista romana, l'osco (ma anche successivamente, iscrizioni osche si rinvengono a Pompei, ancora nel 79 d.C., per esempio), che è lingua italica (quindi imparentata al latino, ma da questo distinto però contemporanea ad esso), e del greco, parlato a Napoli fino al II-III secolo. Il napoletano ha inoltre subìto nella sua storia, come molte altre lingue, influenze e "prestiti" dai vari popoli che hanno abitato o dominato la Campania e l'Italia centro-meridionale, i coloni greci ed i mercanti bizantini nell'epoca del Ducato di Napoli fino al IX secolo, e, più recentemente, gli arabi, i normanni, i francesi gli spagnoli e perfino gli americani, durante la seconda guerra mondiale e la conseguente occupazione di Napoli, hanno contribuito con qualche vocabolo. Sicuramente però lo spagnolo e soprattutto il francese lasciarono tracce profondissime nella lingua e nella cultura napoletana. Tuttavia, soprattutto per quanto riguarda lo spagnolo, è errato attribuire esclusivamente all'influenza spagnola (Napoli fu sotto diretto dominio spagnolo per oltre due secoli, dal 1503 al 1707) qualsiasi somiglianza tra il napoletano e quest'idioma: trattandosi di lingue ambedue romanze o neolatine, la maggior parte degli elementi comuni vanno fatti risalire al latino volgare (in particolare la costruzione dell'accusativo personale indiretto e l'uso di tenere e di stare in luogo di avere e essere, e così via). Sotto gli Aragona si propose il napoletano come lingua dell'amministrazione, senza mai imporre l'aragonese o il catalano, ma il tentativo abortì con la deposizione di Federico e l'inizio del viceregno. Nella prima metà dell'Ottocento il Regno delle Due Sicilie usava di fatto come lingua amministrativa e letteraria l'italiano e quindi il napoletano non ha mai avuto condizione di lingua ufficiale. Questo avvenne anche in altri Stati. Del resto anche il Regno di Sardegna non ufficializzò mai né il piemontese né l'italiano, la lingua più parlata era il francese per i suoi usi amministrativi.
PRIME TESTIMONIANZEIl napoletano (come il siciliano e altre varietà italoromanze) possiede una ricchissima tradizione letteraria. Si hanno testimonianze scritte di napoletano già nel 960 con il famoso Placito di Capua (considerato il primo documento in lingua italiana, ma di fatto si tratta della lingua utilizzata in Campania, conosciuta come volgare pugliese) e poi all'inizio del Trecento, con una volgarizzazione dal latino della Storia della distruzione di Troia di Guido delle Colonne. La prima opera in prosa è considerata comunemente un testo di Matteo Spinelli, sindaco di Giovinazzo, conosciuta come Diurnali, un cronicon degli avvenimenti più importanti del Regno di Sicilia del XI secolo, che si arresta al 1268.
MONTECASSINO
Alle esperienze letterarie dell'Italia meridionale furono sensibili i monaci di Montecassino, centro di un'importante comunità di intellettuali nel Medioevo italiano. L'interesse letterario dei cassinensi, indirizzato prevalentemente a rafforzare l'esperienza della fede e della conoscenza di Dio, fu sollecitato da sempre secondo l'insegnamento lasciato da San Benedetto nella regola da lui redatta. Risalgono all'XI e al XII secolo dei manoscritti in volgare, di cui restano pochi frammenti, conservati nella biblioteca del monastero. È possibile distinguere in questa produzione una varietà di genere e stile insolita rispetto al contesto napolitano, che fu eguagliata solo con poeti toscani del XIII-XIV secolo e i successivi, tra cui Dante, in cui un complesso simbolismo religioso è sostenuto da gradevoli forme liriche, in Eo, sinjuri, s'eo fabello, o anzi in rime di gran pregio stilistico riesce a trapassare un realismo, di chiara ispirazione cristiana, che nella poesia medievale, ma anche nei classici, raramente fu espresso.
LA SCUOLA SICILIANA E IL VOLGARE PUGLIESE
Un'interpretazione relativamente recente vuole che alcune opere prodotte da un gruppo di poeti del Mezzogiorno, nel XIII secolo, siano l'inizio della letteratura volgare italiana. I loro testi sono assemblati per le tematiche simili, nonché per il sublime lirismo che li caratterizza, e vengono considerati espressione di una corrente letteraria detta «scuola siciliana». Storicamente però furono trattati sempre come versi in lingua napoletana (volgare pugliese), dai grammatici coevi e dallo stesso Dante. Sono le poesie di Giacomo da Lentini, Rinaldo d'Aquino, Pier delle Vigne, Giacomino Pugliese e Guido delle Colonne. Dalla Storia della letteratura italiana di Francesco De Sanctis però, che inizia con un'analisi sulla produzione degli scrittori federiciani, costoro sono trattati come il prodotto di un terreno artistico italiano uniforme su cui sarebbe maturata poi la letteratura italiana vera e propria. Inoltre, tanto coloro che adottarono il volgare pugliese quanto quelli che adottarono il volgare siciliano sono chiamati siciliani, perché con tale accezione si connotavano nel duecento, secondo il De Sanctis, coloro che provenivano dal Regno di Sicilia. La denominazione, a cui la maggior parte della critica italiana moderna rimane fedele, che non tiene conto delle differenze specifiche fra i vari gruppi di poeti, riduce l'importante patrimonio letterario meridionale ad un indistinta pruduzione letteraria che avrebbe poi aperto la strada allo «stilnovismo», attraverso la «transizione toscana», in un'interpretazione costruita sull'impronta dei modelli dialettici dell'idealismo e dello storicismo di stampo hegelista.
I siciliani costituirebbero un'importante svolta poetica rispetto alla tradizione provenzale, a cui si ispirarono, per aver sublimato ulteriormente le strutture simboliche dei trobadori, estraniando le tematiche cortesi dai motivi politici e religiosi che invece colorivano la poesia occitana. I toscani però, che spesso copiarono i siciliani, poterono evolvere ulteriormente l'esperienza meridionale, privilegiati dalla familiarità con la realtà cittadina e comunale, dove l'identità culturale era fortemente condizionata dall'appartenenza a fazioni politiche o dalla connivenza con corporazioni economiche: così la poesia italiana si arricchì di tutte le innovazioni tematiche e spirituali proprie dei primi ambienti borghesi. D'altra parte la poesia meridionale finì con il cristallizzarsi entro alcuni stereotipi, perché i letterati del Regno di Sicilia erano fortemente condizionati dal sistema centralista e burocratico dello stato unitario, secondo la critica idealista. Più recentemente alcuni autori stanno mettendo il luce differenze specifiche, rifiutando di considerare lo «stilnovismo» come l'esito o un superamento della poesia meridionale: i rimatori in volgare pugliese sarebbero infatti ispirati da una weltanschauung diversa da quella degli artisti toscani, dei liberi comuni, e non riducibile ad una sorta di fase primitiva della poetica toscana, caratterizzata principalmente da tematiche cortigiane interpretate secondo i modelli culturali ghibellini, come l'idea di un'unità della Chiesa, indipendente dalle nazionalità, che sostiene l'unità dell'impero; come la propaganda per la centralità del potere laico, da cui deve dipendere quello religioso, le politiche sociali e finanziarie; come la volgarizzazione del progetto di ricostruzione di un unico stato cristiano sotto un diritto e un sovrano comune; così coloro che scrissero in siciliano invece fecero propria la tradizione popolare della Sicilia che esprimeva in contrasti amorosi le continue lotte fra fazioni e gruppi politici che per secoli hanno spaccato l'isola, ora araba, ora normanna, ora ortodossa, ora cattolica, con il trionfo finale della civiltà e della tradizione locale contro usurai, feudatari e latifondisti.
L'ETA' MODERNA
La lingua napoletana sostituì il latino nei documenti ufficiali e nelle assemblee di corte a Napoli, dall'unificazione delle Due Sicilie, per decreto di Alfonso I, nel 1442. Alla corte dei figli di Ferdinando I di Napoli però gli interessi umanistici presero un carattere molto più politico; i nuovi sovrani incentivarono l'adozione definitiva del toscano come lingua letteraria anche a Napoli: è della seconda metà del XV secolo l'antologia di rime nota come Raccolta aragonese, che Lorenzo de' Medici inviò al re di Napoli Federico I, in cui si proponeva alla corte partenopea il fiorentino come modello di volgare illustre, di pari dignità letteraria con il latino. Un lungo periodo di crisi seguì questi provvedimenti, per la lingua napoletana, finché le incertezze politiche che sorsero con la fine del dominio aragonese portarono un rinnovato interesse culturale per il volgare cittadino. Il più celebre poeta napoletano d'età moderna è Giulio Cesare Cortese. Egli è molto importante per quella che è la letteratura dialettale e barocca, in quanto, con Basile, pone le basi per la dignità letteraria ed artistica della lingua napoletana moderna. Di costui si ricorda la Vaiasseide, un'opera eroicomica in cinque canti, dove il metro lirico e la tematica eroica sono abbassati a quello che è il livello effettivo delle protagoniste: un gruppo di vaiasse, donne popolane napoletane, che s'esprimono in dialetto. È scritto comico e trasgressivo, dove molta importanza ha la partecipazione corale della plebe ai meccanismi dell'azione.
PROSA
La prosa in volgare napoletana diviene celebre grazie Giambattista Basile, vissuto nella prima metà del Seicento. Basile è autore di un'opera famosa come Lo Cunto de li Cunti, ovvero lo trattenimiento de le piccerille, tradotta in italiano da Benedetto Croce, che ha regalato al mondo la realtà popolare e fantasiosa delle fiabe, inaugurando una tradizione ben ripresa da Perrault e dai fratelli Grimm. Altre prose sono alcune volgarizzazioni della regola di San Benedetto, attuata nel monastero di Montecassino nel XIII e nel XIV secolo e alcuni mea culpa o confessioni rituali scritte dai monaci cassinati per permettere la comprensione dei sacramenti cattolici anche a chi non conosceva la lingua latina.
CULTURA POPOLARE
Negli ultimi tre secoli è sorta una fiorente letteratura in napoletano, in settori anche diversissimi tra loro, che in alcuni casi è giunta anche a punte di grandissimo livello, come ad esempio nelle opere di Salvatore di Giacomo, Raffaele Viviani, Ferdinando Russo, Eduardo Scarpetta, Eduardo de Filippo, Antonio De Curtis, Annibale Ruccello. Sarebbero inoltre da menzionare nel corpo letterario anche le canzoni napoletane, eredi di una lunga tradizione musicale, caratterizzate da grande lirismo e melodicità, i cui pezzi più famosi (come, ad esempio, 'O sole mio) sono noti in diverse zone del mondo. Esiste inoltre un fitto repertorio di canti popolari alcuni dei quali sono oggi considerati dei classici. Va infine aggiunto che a cavallo del XVII e XVIII secolo, nel periodo di maggior fulgore della cosiddetta scuola musicale napoletana, questa lingua sia stata utilizzata per la produzione di interi libretti di opere liriche, alcune delle quali ('O frate 'nnammurato ad esempio) hanno avuto una diffusione ben al di fuori dei confini partenopei. Va segnalata infine la ripresa dell'uso del napoletano nell'ambito della musica pop, musica progressiva e dell'hip hop, almeno a partire dalla fine degli anni settanta (Pino Daniele, Nuova Compagnia di Canto Popolare poi ripresa anche negli anni novanta con 99 Posse, Almamegretta, Co'Sang, La Famiglia, 13 Bastardi) in nuove modalità di ibridazione e di commistione con l'italiano, l'inglese, lo spagnolo e altre lingue. Anche nel cinema e nel teatro d'avanguardia la presenza del napoletano è andata intensificandosi negli ultimi decenni del Novecento e nei primi anni del XXI secolo. La documentazione sul napoletano è ampia, ma non sempre a un livello scientifico. Vocabolari rigorosi sono quello di Raffaele D'Ambra (un erudito ottocentesco) e quello di Antonio Altamura (studioso novecentesco). Interessante è anche la grammatica del Capozzoli (1889). Anche negli ultimi anni sono stati pubblicati dizionari e grammatiche della lingua napoletana, ma non si è mai pervenuti a una normativa concorde dell'ortografia, della grammatica e della sintassi, sebbene si possa comunque ricavare deduttivamente, dai testi classici a noi giunti, una serie di regole convenzionali abbastanza diffuse.
LINGUISTICA
Gli studi più recenti hanno dedicato al napoletano e ai dialetti campani una certa attenzione. Per il napoletano antico si segnalano i lavori di Vittorio Formentin sui Ricordi di Loise de Rosa, di Rosario Coluccia sulla Cronaca figurata del Ferraiolo, di Nicola De Blasi sulla traduzione del Libro de la destructione de Troya, di Marcello Barbato e Marcello Aprile sull'umanista Giovanni Brancati. Sui dialetti moderni, tra gli altri, si segnalano i lavori di Rosanna Sornicola, di Nicola De Blasi, di Patricia Bianchi e di Pietro Maturi dell'Università di Napoli Federico II, di Edgar Radtke dell'Università di Heidelberg, di Francesco Avolio sui confini dei dialetti campani e di Michela Russo, dell'Università di Paris VIII, su aspetti della fonetica come la metafonia. Una rivista, diretta da Rosanna Sornicola, il Bollettino Linguistico Campano, si occupa prevalentemente del napoletano. Da alcuni anni è stato attivato un insegnamento universitario di Dialettologia campana presso la facoltà di Sociologia della Federico II, affidato a Pietro Maturi.
FONETICA E SINTASSI
Spesso le vocali non toniche (su cui cioè non cade l'accento) e quelle poste in fine di parola, non vengono articolate in modo distinto tra loro, e sono tutte pronunciate con un suono centrale indistinto che i linguisti chiamano schwa e che nell'Alfabeto fonetico internazionale è trascritto col simbolo /ə/ (in francese lo ritroviamo, ad esempio, nella pronuncia della e semimuta di petit). Nonostante la pronuncia (e in mancanza di convenzioni ortografiche accettate da tutti) spesso queste vocali, nei solchi della tradizione letteraria in lingua, sono trascritte sulla base del modello della lingua italiana, e ciò, pur migliorando la leggibilità del testo e rendendo graficamente un suono debole ma esistente, favorisce l'insorgere di errori da parte di coloro che non conoscono la lingua e sono portati a leggere come in italiano. Nell'uso scritto spontaneo dei giovani (SMS, graffiti, ecc.), come ha documentato Pietro Maturi, prevale invece l'omissione completa di tale fono, con il risultato di grafie quasi-fonetiche a volte poco riconoscibili ma marcatamente distanti dalla forma italiana (p.es. tliefn per "telefona"). Altri errori comuni, dovuti a somiglianze solo apparenti con l'italiano, riguardano l'uso errato del rafforzamento sintattico, che segue, rispetto all'italiano, regole proprie e molto diverse, e la pronuncia di vocali chiuse invece che aperte, o viceversa, l'arbitraria interpretazione di alcuni suoni. Alcune ulteriori differenze di pronuncia con l'italiano sono: in principio di parola, e soprattutto nei gruppi gua /gwa/ e gue /gwe/, spesso la occlusiva velare sonora /g/ seguita da vocale diventa approssimante /ɤ/. la fricativa alveolare non sonora /s/ in posizione iniziale seguita da consonante viene spesso pronunciata come fricativa postalveolare non sonora /ʃ/ (come in scena [ˈʃɛːna] dell'italiano) ma non quando è seguita da una occlusiva dentale /t/ o /d/ (almeno nella forma più pura della lingua, e questa tendenza viene invertita nelle parlate molisane). le parole che terminano per consonante (in genere prestiti stranieri) portano l'accento sull'ultima sillaba. la /i/ diacritica presente nei gruppi -cia /-ʧa/ e -gia /-ʤa/ dell'italiano, viene talvolta pronunciata: per es. na cruciera [nakru'ʧierə]. è frequente il rotacismo della /d/, cioè il suo passaggio a /r/ (realizzata più esattamente come [ɾ]), come in Maronna. la vocale aperta arrotondata a è pronunciata /ɑ/ e non come la /a/ dell'italiano.
SIMILITUDINI CON ALTRE LINGUE
Nella lingua napoletana troviamo moltissime parole simili o talvolta uguali a lingue straniere. Solitamente sono scritte in modo diverso ma spesso la pronuncia è molto simile o identica. Ciò è dovuto in parte alle conservazioni greche e latine e in parte alle diverse dominazioni che il Regno di Napoli ha subito. Troviamo in essa parole derivate dalle lingue castigliana, catalana, francese, araba (attraverso lo spagnolo o, in ambito culinario, grazie ai numerosi scambi commerciali che il Regno di Napoli intratteneva con l'area afro-mediterranea). Qualche parola deriva addirittura dall'inglese (anche con l'Inghilterra il Regno intratteneva rapporti commerciali) alcune delle quali introdotte durante l'occupazione americana della seconda guerra mondiale e forse per commistione linguistica con termini usati da emigranti in nazioni anglofone.
LINGUA INTERNAZIONALE E FOLCLORE NAPOLETANO La prosa in volgare napoletana diviene celebre grazie Giambattista Basile, vissuto nella prima metà del Seicento. Basile è autore di un'opera famosa come Lo Cunto de li Cunti, ovvero lo trattenimiento de le piccerille, tradotta in italiano da Benedetto Croce, che ha regalato al mondo la realtà popolare e fantasiosa delle fiabe, inaugurando una tradizione ben ripresa da Perrault e dai fratelli Grimm. Altre prose sono alcune volgarizzazioni della regola di San Benedetto, attuata nel monastero di Montecassino nel XIII e nel XIV secolo e alcuni mea culpa o confessioni rituali scritte dai monaci cassinati per permettere la comprensione dei sacramenti cattolici anche a chi non conosceva la lingua latina.
CULTURA POPOLARE
Negli ultimi tre secoli è sorta una fiorente letteratura in napoletano, in settori anche diversissimi tra loro, che in alcuni casi è giunta anche a punte di grandissimo livello, come ad esempio nelle opere di Salvatore di Giacomo, Raffaele Viviani, Ferdinando Russo, Eduardo Scarpetta, Eduardo de Filippo, Antonio De Curtis, Annibale Ruccello. Sarebbero inoltre da menzionare nel corpo letterario anche le canzoni napoletane, eredi di una lunga tradizione musicale, caratterizzate da grande lirismo e melodicità, i cui pezzi più famosi (come, ad esempio, 'O sole mio) sono noti in diverse zone del mondo. Esiste inoltre un fitto repertorio di canti popolari alcuni dei quali sono oggi considerati dei classici. Va infine aggiunto che a cavallo del XVII e XVIII secolo, nel periodo di maggior fulgore della cosiddetta scuola musicale napoletana, questa lingua sia stata utilizzata per la produzione di interi libretti di opere liriche, alcune delle quali ('O frate 'nnammurato ad esempio) hanno avuto una diffusione ben al di fuori dei confini partenopei. Va segnalata infine la ripresa dell'uso del napoletano nell'ambito della musica pop, musica progressiva e dell'hip hop, almeno a partire dalla fine degli anni settanta (Pino Daniele, Nuova Compagnia di Canto Popolare poi ripresa anche negli anni novanta con 99 Posse, Almamegretta, Co'Sang, La Famiglia, 13 Bastardi) in nuove modalità di ibridazione e di commistione con l'italiano, l'inglese, lo spagnolo e altre lingue. Anche nel cinema e nel teatro d'avanguardia la presenza del napoletano è andata intensificandosi negli ultimi decenni del Novecento e nei primi anni del XXI secolo. La documentazione sul napoletano è ampia, ma non sempre a un livello scientifico. Vocabolari rigorosi sono quello di Raffaele D'Ambra (un erudito ottocentesco) e quello di Antonio Altamura (studioso novecentesco). Interessante è anche la grammatica del Capozzoli (1889). Anche negli ultimi anni sono stati pubblicati dizionari e grammatiche della lingua napoletana, ma non si è mai pervenuti a una normativa concorde dell'ortografia, della grammatica e della sintassi, sebbene si possa comunque ricavare deduttivamente, dai testi classici a noi giunti, una serie di regole convenzionali abbastanza diffuse.
LINGUISTICA
Gli studi più recenti hanno dedicato al napoletano e ai dialetti campani una certa attenzione. Per il napoletano antico si segnalano i lavori di Vittorio Formentin sui Ricordi di Loise de Rosa, di Rosario Coluccia sulla Cronaca figurata del Ferraiolo, di Nicola De Blasi sulla traduzione del Libro de la destructione de Troya, di Marcello Barbato e Marcello Aprile sull'umanista Giovanni Brancati. Sui dialetti moderni, tra gli altri, si segnalano i lavori di Rosanna Sornicola, di Nicola De Blasi, di Patricia Bianchi e di Pietro Maturi dell'Università di Napoli Federico II, di Edgar Radtke dell'Università di Heidelberg, di Francesco Avolio sui confini dei dialetti campani e di Michela Russo, dell'Università di Paris VIII, su aspetti della fonetica come la metafonia. Una rivista, diretta da Rosanna Sornicola, il Bollettino Linguistico Campano, si occupa prevalentemente del napoletano. Da alcuni anni è stato attivato un insegnamento universitario di Dialettologia campana presso la facoltà di Sociologia della Federico II, affidato a Pietro Maturi.
FONETICA E SINTASSI
Spesso le vocali non toniche (su cui cioè non cade l'accento) e quelle poste in fine di parola, non vengono articolate in modo distinto tra loro, e sono tutte pronunciate con un suono centrale indistinto che i linguisti chiamano schwa e che nell'Alfabeto fonetico internazionale è trascritto col simbolo /ə/ (in francese lo ritroviamo, ad esempio, nella pronuncia della e semimuta di petit). Nonostante la pronuncia (e in mancanza di convenzioni ortografiche accettate da tutti) spesso queste vocali, nei solchi della tradizione letteraria in lingua, sono trascritte sulla base del modello della lingua italiana, e ciò, pur migliorando la leggibilità del testo e rendendo graficamente un suono debole ma esistente, favorisce l'insorgere di errori da parte di coloro che non conoscono la lingua e sono portati a leggere come in italiano. Nell'uso scritto spontaneo dei giovani (SMS, graffiti, ecc.), come ha documentato Pietro Maturi, prevale invece l'omissione completa di tale fono, con il risultato di grafie quasi-fonetiche a volte poco riconoscibili ma marcatamente distanti dalla forma italiana (p.es. tliefn per "telefona"). Altri errori comuni, dovuti a somiglianze solo apparenti con l'italiano, riguardano l'uso errato del rafforzamento sintattico, che segue, rispetto all'italiano, regole proprie e molto diverse, e la pronuncia di vocali chiuse invece che aperte, o viceversa, l'arbitraria interpretazione di alcuni suoni. Alcune ulteriori differenze di pronuncia con l'italiano sono: in principio di parola, e soprattutto nei gruppi gua /gwa/ e gue /gwe/, spesso la occlusiva velare sonora /g/ seguita da vocale diventa approssimante /ɤ/. la fricativa alveolare non sonora /s/ in posizione iniziale seguita da consonante viene spesso pronunciata come fricativa postalveolare non sonora /ʃ/ (come in scena [ˈʃɛːna] dell'italiano) ma non quando è seguita da una occlusiva dentale /t/ o /d/ (almeno nella forma più pura della lingua, e questa tendenza viene invertita nelle parlate molisane). le parole che terminano per consonante (in genere prestiti stranieri) portano l'accento sull'ultima sillaba. la /i/ diacritica presente nei gruppi -cia /-ʧa/ e -gia /-ʤa/ dell'italiano, viene talvolta pronunciata: per es. na cruciera [nakru'ʧierə]. è frequente il rotacismo della /d/, cioè il suo passaggio a /r/ (realizzata più esattamente come [ɾ]), come in Maronna. la vocale aperta arrotondata a è pronunciata /ɑ/ e non come la /a/ dell'italiano.
SIMILITUDINI CON ALTRE LINGUE
Nella lingua napoletana troviamo moltissime parole simili o talvolta uguali a lingue straniere. Solitamente sono scritte in modo diverso ma spesso la pronuncia è molto simile o identica. Ciò è dovuto in parte alle conservazioni greche e latine e in parte alle diverse dominazioni che il Regno di Napoli ha subito. Troviamo in essa parole derivate dalle lingue castigliana, catalana, francese, araba (attraverso lo spagnolo o, in ambito culinario, grazie ai numerosi scambi commerciali che il Regno di Napoli intratteneva con l'area afro-mediterranea). Qualche parola deriva addirittura dall'inglese (anche con l'Inghilterra il Regno intratteneva rapporti commerciali) alcune delle quali introdotte durante l'occupazione americana della seconda guerra mondiale e forse per commistione linguistica con termini usati da emigranti in nazioni anglofone.
Celebre in tutto il mondo è la canzone napoletana, che non solo è strettamente legata agli stereotipi più diffusi della cultura italiana negli Stati Uniti e nei paesi di cultura anglosassone, ma ha anche imposto slang e parole internazionali, come 'O sole mio, 'O surdato 'nnammurato o Funiculì funiculà. Non si dimentichino nemmeno i numerosi prestiti alle lingue internazionali generalmente considerati come italianismi, da pizza, maccaroni a tarantella. Tre parole che si associano a Napoli (ma anche all'Italia nell'immaginario collettivo) sono Pizza, Vesuvio e mandolino. Tre parole importantissime, forse anche più conosciute dei suoi stessi momumenti, che sono spesso sulla bocca di tutti.
http://it.wikipedia.org/wiki/Lingua_napoletana
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